Siren


Regia: Gregg Bishop


Un mix di sensazioni contrastanti ti resta al termine della visione di questo Siren, adattamento su larga scala di un cortometraggio presente nella prima antologia V/H/S, che francamente ricordavo il giusto e che quindi mi toccherà rivedere abbreve.

Tra tutte comunque prevale, a mio avviso, il rammarico, in quanto l’idea di partenza (che poi ad essere precisi è da ricercare nel lavoro precedente da cui si è preso spunto) era buono, così come altre robe con cui andrò ad annoiarvi nel proseguo, ma che in fin dei conti è stato parzialmente sprecato, volendo osare forse troppo e soprattutto nella direzione sbagliata in molti casi. Ripeto, peccato davvero perché ci poteva scappare il filmone e invece, come spesso mi accade di raccontare, eccoci a parlare di un film appena appena sopra la sufficienza, quella sufficienza stiracchiata che l’insegnante ti smollava a scuola forse perché risultavi particolarmente simpatico e abile nel saperti tirar fuori dalle situazioni di impiccio, oppure semplicemente per levarti dalle palle senza troppe discussioni (barrare B, per una motivazione più credibile).

Il concetto della sirena mi ha sempre affascinato (anche se poi la cara Lily dimostra di interpretare il personaggio in maniera non proprio tradizionale), sin dai tempi in cui mi fecero leggere le vicende di Ulisse per la prima volta e non è certo una novità sul piccolo e grande schermo, con tutte le divagazioni possibili ed immaginabili; basti pensare, senza andare troppo indietro, al recente Pieles di cui ho parlato da poco e alla fissazione del ragazzo non esattamente innamorato dei suoi arti.

Le aspettative di conseguenza erano elevate e già l’inizio prometteva bene, con quella pregevole scena iniziale (che lasciava intuire che il regista non si sarebbe di certo risparmiato) e che tuttavia rimane un po’ slegata con tutta la vicenda, sulla quale era lecito attendersi un maggior approfondimento, data la non convenzionalità della situazione. E prometteva bene anche l’ambiente del pseudo bordello dove si consuma il tragico addio al celibato del protagonista (roba che manco in Una Notte Da Leoni se lo sarebbero studiato), con il rischio di innamorarsi già all’apertura delle porte.


La visione distorta a seguito dei funghetti allucinogeni è resa molto bene, tanto che in un paio di occasioni sembra quasi di essere realmente in botta da Magic Mushrooms e pure i vari cocktails intrigano molto e nel giro di pochi secondi ti fanno realizzare che il giorno in cui ti sei trangugiato il verme del mescal, in fondo non hai fatto nulla di così trasgressivo.

Ma tutti questi abusi hanno inevitabilmente degli effetti collaterali e uno di questi è l’irrefrenabile voglia di liberare quella graziosa creatura che con il suo canto melodioso riesce a mandare in estasi chiunque. Hannah Fierman è perfetta nella parte e si carica praticamente sulle spalle tutto il film, che in fin dei conti non va a picco proprio grazie a lei che, non appena compare, ti rimanda immediatamente al corto di cui accennavo sopra, perché questa non te la dimentichi, garantito. 


Il trucco, soprattutto nei momenti in cui si incazza più della famosa polizia del Secondo Tragico Fantozzi (e ce ne sono più di uno di questi momenti, fidatevi) è molto valido (apprezzata tra l'altro la coda e l’improprio uso che ad un certo momento ne fa), così come diversi effettacci splatterosi che, seppur non preponderanti, vengono piazzati nei momenti più opportuni. Ma sono quegli occhioni da ragazzina indifesa il vero punto di forza, quello sguardo tenero che tra un po’ mi ci fa cascare pure a me (meno male che avevo le cuffiette a portata di mano con Reign In Blood degli Slayer, da mettere all’occorrenza) e che ben si alterna ai suddetti episodi di violenza incontrollabile. E quando gli arriva davanti dentro al locale, con quel sorriso a 126 denti e gli ripete un “I like you” che sa di condanna, mette davvero i brividi.


Ma in film come questi, il rischio di esagerare c’è, ed infatti troppo spesso si registrano cadute di stile che purtroppo pesano notevolmente sulla valutazione finale (per esempio ho appena parlato di buon make up e poi mi presenti quelle ali ridicole che trasformano in un attimo il personaggio da inquietante a ridicolo).

Ed è proprio questo il punto, in alcuni casi (come questo forse) sarebbe meglio virare su uno stile cazzarone dichiarato, anziché rimanere nel limbo e tentare di restare seri a tutti i costi, perché è un attimo ritrovarsi nel grottesco involontario.

Oltre a questo poi la sceneggiatura appare approssimativa e pasticciata in alcuni punti, alcune vicende non vengono approfondite come meritano, altre vengono risolte frettolosamente, nel tentativo di gettare nel calderone quante più idee possibili, ma senza un vero nesso logico. 


Il finale, seppure prevedibile dalla prima immagine ripresa nel letto, ci sta e mi è piaciuto, soprattutto quando lui getta gli occhi sul divano e capisce tutto, mentre l’epilogo della storia non può che essere come in effetti è.

Come già abbondantemente sottolineato prima, trattasi di film incompiuto, che nelle mani giuste avrebbe potuto figurare decisamente meglio.

Giudizio complessivo: 6.2
Enjoy,


Luca Rait



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