The Killing of a Sacred Deer


Regia: Yorgos Lanthimos

The Killing of a Sacred Deer (L’uccisione di un cervo sacro) è l’ultima opera del regista greco Yorgos Lanthimos

Già celebre per i precedenti e discussi Alps (2011) e The Lobster – L’Aragosta (2015) Lanhimos conferma la sua attrazione per storie forti, simboliche, non banali che ne contraddistinguono l’autorialità quasi a creare un genere proprio. 

Il cinema di Lanthimos infatti é da subito riconoscibile, personale, nello stile come nella narrazione e recitazione; sempre in bilico tra l’umorismo nero e la farsa.

Anche stavolta il regista si avvale della collaborazione dello sceneggiatore Efthimis Filippou che ha firmato con regista il recente Dogtooth (2009).

Ed infatti il territorio toccato da The Killing è vicino a quello di Dogtooth, anche qui si parla di isolamento e contesto familiare. 

Colin Farell interpreta il cardiochirurgo di successo Steven Murphy, sposato con l’oftalmologa Nicole Kidman (sempre credibile e vibrante, cult nella scena in cui cita il suo ruolo in Eyes Wide Shut). Un figlio piccolo e una figlia pre-adolecente. Una casa da rivista. La famiglia spot per farla breve. L’equilibrio perfetto di quest’esistenza splendidamente opaca è interrotto con la comparsa dell’adolescente Martin (l’ottimo Barry Keoghan). Si scopre che Martin è il figlio di un paziente morto sotto le mani di Steven durante un’operazione eseguita dopo aver bevuto 2 bicchierini di troppo. Improvvisamente i figli di Steven iniziano a rifiutare il cibo e a lasciarsi morire di fame…


Il film, come si evince dal titolo, può essere visto come una trasposizione del mito greco di Ifigenia, la figlia di Agamennone sacrificata alle ire della dea Artemide. Una parabola sulla responsabilità, il castigo e la vendetta; trasposta però al XI secolo. 

Ma Lanthimos non si limita a rileggere tale mito e a condirlo del suo umorismo neutro e impassibile. Il regista mostra tutta la sua ambizione omaggiando i maestri che prima di lui si sono avventurati nel territorio dell’horror e dell’occulto. 

Il film ha una costruzione narrativa e stilistica personale ma è colmo di riferimenti e citazioni: Kubrick, Pasolini, Friedkin, Haneke ed altri film piu recenti ma già cult. 

Sin dalla scena iniziale, con l’inquadratura fissa e schockante di un cuore pulsante durante un’operazione, la camera riprende il suo protagonista e lo osserva, destrutturandone l’esistenza perfetta. Steven dopo l’operazione che parla con il collega del costosissimo cinturino acquistato per il suo orologio subaqueo. Steven che torna nella sua splendida casa, che cena con la sua famiglia fashion parlando di torte al limone e delle mestruazioni della figlia. Lui e i suoi familiari sono benestanti, ricchi materialmente, ma è il vuoto quello che prevale, un vuoto immenso. Lui, la moglie, i figli, si muovono lentamente, parlano scandendo le parole, sono ovattati, anestetizzati come le loro esistenze. 


Martin, che ricorda un giovane Norman Bates con gli occhi spalancati sul mondo annuncia a Steven: “Il momento critico che entrambi sapevamo arrivare un giorno è adesso” anticipando il terrore che scatenerà. Ma Martin non è sovrumano, non è satanico, è solo un ragazzino che vuole vendetta, per il quale giustizia significa togliere quanto è stato tolto a lui. Inquietante e inarrestabile come il protagonista di E Ora Parliamo di Kevin (2011) Martin è ritratto da Kerry Keoghan in maniera seducente, è ambiguo e spietato come i protagonisti di Funny Games (1997) di Haneke e il Malcom McDowell di Arancia Meccanica (1972). 

Ma Martin non é un giovane sadico, nichilista e rivendicativo come i protagonisti di Funny Games e Arancia Meccanica, non è un angelo sterminatore; è un adolescente ferito, un giovane uomo che ha perso una persona per l’irresponsabilità di qualcun’altro. Per lui vale l’equazione 1:1, una vita per una vita.

Un pensiero che non fa una piega, matematico e geometrico.

La stessa gometria che pervade la scelta estetica dell’intero film, i personaggi disposti nello spazio come pedine immobili, gli immensi e rettilinei corridoi dell’ospedale dove lavora Steven, ripresi ad andatura lenta come in Shining

La stessa geometria che pervade Teorema di Pasolini, anch’esso con protagonista un giovane enigmatico che scuoterà le coscienze di una famiglia dell’alta borghesia milanese.

Il mondo vissuto da Steven e gli altri personaggi è un non-luogo, alienato ed alienante, la cui superficie pero si sgretola in un battito d’ali rivelando segreti incoffessabili, reazioni inaspettate, scelte terrificanti. 


Come nell’Esorcista, Lanthimos ci dice che la medicina e la scienza non hanno una risposta per tutto. Come la piccola Regan torturata dai medici che non trovano spiegazioni al suo malessere anche i figli di Steven risultano inermi ad ogni trattamento o cura. 

L’unica soluzione è quella offerta da Martin, occhio per occhio, giustizia terrena, scegliere chi far vivere e chi no, proprio come ha fatto Steven quando ha scelto di operare dopo aver bevuto. 

Il finale ovviamente è perturbante e non consolatorio, proprio come la vita, o, per lo meno come le esistenze che a Lanthimos piace raccontarci. 

Giudizio complessivo: 8




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